Cosa succede nella testa di una donna che soffre di disturbi alimentari?

    In occasione della IV Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla sui Disturbi del Comportamento Alimentare del 15 marzo 2015, Giulia Sciolli 23 anni, neo-laureata in Antropologia Medica e Sviluppo Internazionale, ci racconta come questi disturbi siano fonte di preoccupazione crescente nel mondo. In Italia sono circa 3 milioni le persone che ne soffrono, il 90% di sesso femminile.

    A partire dagli anni ’80 e ’90 una serie di studiose ha proposto un’analisi femminista-culturale del problema, criticando fortemente il riduzionismo del mondo medico. Secondo tali studiose, psicopatologie come l’anoressia e la bulimia sono il risultato della “cristallizzazione della cultura”: non andrebbero quindi viste come un problema di disfunzione cognitiva, ma come l’estremizzazione dei valori e delle aspettative che la nostra cultura ha sul corpo e sul ruolo delle donne, e dunque come una forma di protesta sociale inconsapevole e necessariamente autodistruttiva.

    Questo tipo di analisi è illuminante, ma i disturbi alimentari rischiano di essere ridotti ad una battaglia simbolica espressa attraverso un corpo passivo, al punto che ci si inizia a domandare se si stia parlando di donne reali. Dov’è il sé di queste donne? Dove sono le loro esperienze personali? In questo senso l’antropologa Rebecca Lester propone di vedere l’anoressia e la bulimia come una forma di “tecnologia del sé”, ovvero come un modellamento consapevole del proprio essere che segue una determinata filosofia di vita attraverso una serie di pratiche corporee culturalmente significative. In questo modo, si dà spazio sia all’esperienza personale che al contesto culturale.

    Le ossessioni riguardo al cibo, l’esercizio fisico compulsivo, il regime militaristico a cui queste ragazze sottopongono ogni aspetto della propria vita, mirano ad uno scopo di cui essere magri è dunque solo una parte, e che ha più a che fare con il cambiare il proprio essere e comunicarne l’atteggiamento. Nello stesso modo in cui le diete non sono più solo una pratica fisica, ma anche una pratica morale che definisce il nostro essere – “Non siamo noi a fare la dieta ma le diete a fare noi” sostiene Marino Niola in Homo Dieteticus, il digiuno e la conseguente sensazione di fame diventano in chi soffre di anoressia o bulimia strumenti per essere ‘persone morali’.”

    I disturbi alimentari non sono quindi semplicemente un modo di resistere passivamente ad un messaggio culturale, ma una reazione attiva ad esso. Sono un modo per trasformarsi e diventare qualcosa, giocando secondo le regole della nostra cultura.

    Adottando una dieta strenua e severi rituali di esercizio fisico, queste ragazze negano di essere bisognose, affamate e desiderose, per trasformarsi in qualcuno che trovano più accettabile. Il problema è che ad un certo punto tali pratiche corporee prendono il sopravvento, portando ad una compulsiva e monopolizzante attenzione sul corpo. Di conseguenza, il ‘progetto del sé’ passa in secondo piano e fallisce miseramente.

    Ecco dunque scardinata la comune visione secondo la quale queste donne si sentirebbero distaccate dal proprio corpo, pura mente. Il distacco dal corpo non è la causa dell’anoressia o della bulimia, ma l’obiettivo, la risposta ad un’estrema realizzazione di un’incorporazione che porta sofferenza: la tenace distruzione che l’anoressica riserva al proprio corpo, soprattutto a quelle parti che ‘tradiscono’ il suo essere donna, seni, fianchi e pancia non mostra distacco; al contrario, mostra la consapevolezza che ella è il suo corpo femminile, che  scrive Lester

    –“in questa cultura il mio corpo definisce chi sono, quali opportunità saranno per me aperte o chiuse, quali saranno le mie esperienze, e come gli altri si relazionano a me”.

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