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Il 2 marzo 2017 la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per non aver agito con sufficiente rapidità per proteggere una donna e i suoi figli dagli atti di violenza domestica perpetrati dal marito. La condanna all’ergastolo per l’uomo è avvenuta per l’assassinio del ragazzo, intervenuto in difesa della madre, e il tentato omicidio della moglie, Elisaveta Talpis, una cittadina con doppia nazionalità rumena e moldava. Nel 2011 quest’ultima si era trasferita con il marito moldavo, la figlia diciannovenne e il figlio tredicenne in provincia di Udine.
I legali della donna hanno fatto ricorso alla CEDU di Strasburgo nel 2014, poiché, nonostante in diverse occasioni dal 2012, Elisaveta si fosse rivolta alle forze dell’ordine, avesse sporto denuncia contro il marito e si fosse avvalsa di assistenza sanitaria e sociale contro lesioni corporali, maltrattamenti e minacce, chiedendo misure urgenti per proteggere lei e i figli, sono passati 7 mesi prima che la donna fosse ascoltata dalla polizia.
La Corte ha pertanto condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea dei diritti umani, riconoscendo alla ricorrente 30mila euro per danni morali e 10 mila per le spese legali. La sentenza diverrà definitiva tra tre mesi se le parti non faranno ricorso.
Con questa sentenza, la Corte Europea di Strasburgo ha messo in evidenza un dato che – chi analizza e conosce il fenomeno della violenza sulle donne – ha più volte denunciato: «non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto, creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che alla fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio». Il punto è sempre quello: a poco servono leggi (eventualmente) eccellenti, se poi le strutture demandate di applicarle non sono pronte a recepirle. E non sono pronte non solo per motivi burocratici o inerzie varie, come denuncia la Corte, ma perché manca soprattutto la comprensione e la conoscenza del fenomeno da parte degli operatori, che spesso tendono a derubricarlo a screzi tipici delle coppie o comunque faccende personali.
Più volte mi è capitato di ascoltare testimonianze terribili di donne alle prese con la violenza domestica, dove l’aspetto più straziante è, per TUTTE quelle che hanno avuto il coraggio di denunciare, la SOLITUDINE in cui si ritrovano dopo: solitudine concreta, perché l’arretratezza culturale ancor oggi vigente in materia di rapporti uomo-donna, crea attorno a loro un vuoto cosmico, quasi dovessero farsi carico della “colpa” di ciò che hanno subìto; e solitudine psicologica, in ogni passaggio formale dalla denuncia, dal pronto soccorso, all’accertamento medico del danno, alla testimonianza durante il processo… se mai ci arrivano e non ritirano prima la denuncia, come ahimé molto spesso accade. Durante tutte queste fasi, come una goccia di acido che alla fine tutto corrode, viene ripetutamente chiesto loro di confermare quanto vissuto, di verificarne l’attendibilità, quasi fossero loro stesse ad essere sotto processo, a dover dimostrare – ancora una volta – di aver subìto un atto di violenza. Praticamente una violenza nella violenza!
Il punto è che la violenza contro le donne, fisica e/o psicologica che sia, è un fenomeno estremamente complesso e come tale richiede soluzioni complesse, cioè sistemiche, integrate. È un fenomeno che interroga aspetti pregressi della psiche dei singoli, aspetti di contesto, contingenti e generali/culturali, e aspetti dinamico-relazionali della coppia in sé. Ogni caso va osservato in modo specifico, mentre la comunanza va trovata nella metodologia dell’approccio, che dovrà necessariamente tirare in causa tutte le istituzioni, non solo Ministero dell’Interno, forze dell’ordine e Ministero della Salute, ma anche Ministero del Lavoro e soprattutto MIUR. Affinché da un lato si lavori sui bambini, per superare una cultura di genere ancora influenzata da stereotipi culturali, e soprattutto sulla più generale capacità di relazionarsi e gestire i conflitti; dall’altro si investa sulla formazione degli adulti inseriti nelle strutture di accoglienza e protezione, siano esse forze dell’ordine, infermieri, medici, avvocati o giudici.
Occorre un grande investimento, ricordando che, a fronte di 1€ speso in prevenzione e contrasto si ha un ritorno di 9€ in termini di Valore Sociale creato, e soprattutto che a fronte di 1€ in formazione e sensibilizzazione, il rapporto è dieci volte tanto*, rimarcando così l’efficacia massima di questo tipo di interventi ex-ante, rispetto ad interventi – comunque necessari – ex-post. Dobbiamo dunque puntare con urgenza ad una strategia complessiva per contrastare la violenza, che intervenga su tre asset: sul fronte prevenzione/educazione, per ridurre i presupposti che contribuiscono a coltivare/attivare la violenza; sul fronte presa in carico e cura per rendere efficienti ed efficaci gli interventi di denuncia e la tutela della vittima; sul fronte empowerment delle donne per giungere alla loro piena autodeterminazione e indipendenza psichica/economica.
Il tutto – ci tengo a dirlo pur essendo un tema scottante – riportando sulla scena gli uomini, quelli già violenti ma che hanno intrapreso un percorso di recupero, e che possono rappresentare una testimonianza positiva per altri uomini, prime vittime della loro stessa modalità violenta di relazionarsi. Esistono infatti centri di ascolto a loro dedicati (ad es. il CAM di Firenze), dove possono condividere i loro vissuti con altri uomini sentendosi compresi e accolti; perché solo da un (difficile) percorso condiviso di ascolto, potremo trarre i germogli per un reale e profondo cambiamento sociale, a beneficio di tutti, donne e uomini.
* dati We World 2017, Analisi SROI delle politiche d’intervento
©2014 - Corrente Rosa - Associazione non lucrativa e senza legami politici
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