Lo stesso giorno che rivide Paolo si ripropose di scrivere a Giulia. Non l’aveva mai conosciuta ma una volta vide una sua foto in bianco e nero, così bella da trasportarla d’improvviso indietro nel tempo, con una voluttà fino a quel momento a lei sconosciuta. I grandi occhi neri le sorridono con infinita dolcezza, la bocca socchiusa, la morbida lucentezza dei capelli che invoglia al loro contatto setato. Senza trucco anche la pelle respira una luce limpida e il lieve pallore contrasta con lo sfondo, in uno spazio indefinito che si confonde con le ondulazioni scure dei capelli. Lui l’amava ancora, ne era certa.
Cominciò a scrivere con quel volto ricostruito tante volte nella memoria, fiduciosa che l’avrebbe compresa, così come lei pretendeva di capirla ed amarla. Cara Giulia. Il suo nome ricorreva ossessivo ad emanare tutto il fascino di una meta irraggiungibile. Con quale diritto poteva pretendere di chiedere spiegazioni e di avanzare soluzioni? Ma appunto si pensa e si scrive proprio nel tentativo d’inerpicarsi lungo i tracciati che si disegnano ogni volta che incrociamo la realtà del nostro vissuto. E la visione non si fa splendida proprio quando crediamo di aver preso per mano il nostro destino e abbracciato la nostra vita?
Le ritornavano insistenti alla memoria le immagini di due magiche silhouettes, due giovani attori che avevano impersonato “Amour et Psyché” per una recita serale, in un teatro vicino agli Champs Elysés di cui non ricordava più il nome. Uno spettacolo indimenticabile. Due anziane signore davanti a lei sembravano meno propense a lasciarsi conquistare, per invidia certo della splendida gioventù di quei corpi quasi imberbi. Spiavano con avidità la loro bellezza, e lo sguardo delle vecchie appariva infine lubrico attraverso le lenti del binocolo che una di loro stringeva nel pugno ossuto. Immobili nella loro secchezza, raffinate e agghindate quelle due decrepite dame della morte mentre nudi i corpi di Amore e Psiche danzavano statuari nelle forme e floridi nei movimenti.
Esaltata dalla visione, sfiorata dalle vesti trasparenti che ricoprono appena le sagome snelle dei due amanti, si rivolse a Giulia con tono profetico e ammonitore. Perché lo aveva abbandonato? Lei che possedeva l’arcano della vita per Paolo, lei ch’era stata la vestale di ogni sua contraddizione, di ogni suo dilemma. Perché mai fuggire? Forse in odio all’amore? per colpire, ferire profondamente il cuore del suo piacere? Quando l’amore dimentica se stesso e le ragioni della sua leggerezza, quando la vita diviene soltanto un nome per un’idea tradita, allora prevale una volontà che risale con fredda naturalezza, con una strana e dolorosa determinazione le correnti tumultuose di quel fiume della passione che prima l’aveva trascinata ignara di se stessa incontro al mare dell’azione, per giungere infine nel luogo della sua pacificazione, nelle calme acque di un cimitero antico quanto il mondo. Lì dove l’attendono tutte le energie spente e i morti voleri di un destino comune a molte storie, una narrazione unica che ha travolto il carattere proprio di ogni vita, di ogni amore.
Giulia come un seme prezioso disperso in un’aria letale sembrava fluttuare in un eterno irreale, in attesa di ricadere su una luna favolosa pronta ad accogliere tutte le donne verdi di linfa, rigogliose fra la loro ricca vegetazione. Lontana d’Amore, lontana da un dio al quale non riconosceva più alcun mistero, la nuova Psiche abbandonava il palazzo e la signoria non più adorata del suo consorte. Libera di vagabondare, avendo sospeso nel tempo il desiderio che accompagna l’attesa di ogni ritorno.
Dal luogo di uno spazio senza tempo le giungeva ancora l’eco delle loro risate. Insieme potevano giacere felici e Psiche aveva dimenticato la purezza della sua ragione.
Gettò il foglio nel cestino.
Giulia non voleva e non poteva restare, che senso avrebbe avuto il loro matrimonio? Paolo aveva atteso tanti anni per legarsi ad una donna, la loro unione era nata da una promessa ch’era stata celebrata in Chiesa e lei non voleva tradire quel patto che avrebbe dovuto suggellare la loro felicità, il loro amore.
Era più di un contratto per Giulia, era la consacrazione di una scelta definitiva, d’amare per sempre, peccato che aveva dovuto comportare l’impegno di Paolo! Per lui infatti era pur vero che l’amore si proponeva come l’obbligo più costante della sua vita, infiniti potevano essere però gli oggetti del suo piacere. Per lui l’amore era una faccenda, la più stimolante e concreta che conoscesse. La sua gioia infantile di abbandonarsi ad ogni slancio erotico, di abbracciare ogni parvenza riflessa del suo amore in amplessi sessuali che col passare degli anni, nella sua prima maturità, erano divenuti in realtà sempre più insignificanti, questa vuota ossessione lo aveva condotto verso Giulia nella speranza di un quieto e totale appagamento quale segno dell’approdo definitivo del suo istinto vitale, il totale rigenerarsi delle sue forze alla fonte primordiale del desiderio, la scomparsa di ogni insensatezza. Fu l’idea tutta esteriore di un felice compromesso con la sua esistenza, nozze fastose e organi celestiali sotto le volte barocche della Roma papalina, il giusto trionfo per un seduttore innamorato.
No, Giulia doveva andare via per se stessa, togliergli il piacere della sua presenza consolatrice. Affrancarsi dalla sua scelta? Era possibile, era logico, dopo l’ambiguità e la sincera ipocrisia di lui tutto era ammesso. L’incompatibilità dei loro caratteri risiedeva in quella profonda diversità d’intenti, di nature, ma chi aveva mentito a se stesso e a lei era Paolo. Se soltanto fosse sempre rimasto fedele a se stesso, alla sua natura!
La solitudine che da tempo sembrava opprimere Paolo non l’avrebbe più abbandonato, piena delle parole di Giulia, povera di ogni suo sorriso.
di Patrizia Lanzalaco
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