Ma la corporate governance dimentica le donne

    Articolo di Roger Abravanel comparso il 6 marzo 2010 a p. 47 del Corriere della Sera.

    Nei giorni scorsi i giornali hanno dato notizia del mancato varo del codice di autodisciplina del Codice di autoregolamentazione per le società quotate a Piazza Affari. I commenti successivi si sono focalizzati sul fatto che la vittima illustre era stata la proposta di più donne nei Consigli di amministrazione italiani. E non a torto. Va sottolineato come si sia realizzato il fallimento di un lavoro che andava avanti da anni.

    Le cause precise di questo stop paiono ancora da comprendere. Anche se è probabile che ancora una volta ci sia alla base la sotterranea battaglia tra due gruppi di interessi nel campo delle regole sul governo delle imprese italiane. Da un lato chi fa parte da anni degli antichi e forse ormai in disuso “salotti buoni” della finanza italiana ma che controllano de facto direttamente e indirettamente attraverso vari accordi alcune imprese anche importanti. Famiglie di imprenditori, banchieri e chi li rappresenta. Cosa che, peraltro, produce la ben nota “non contendibilità” delle aziende, ponendo l’Italia al di fuori dei mercati dei capitali avanzati. Dall’altro lato c’è chi invece si candida come rappresentante degli azionisti di minoranza che è necessario proteggere dall’azionista di maggioranza che può prendere decisioni strategiche negli interessi della famiglia o degli altri gruppi di controllo e non della impresa. In passato si trattava di evitare che l’azionista di riferimento si comprasse aerei privati e squadre di calcio con i soldi delle imprese. Oggi con la crisi si cerca di evitare che holding di famiglia troppo indebitate utilizzino le società quotate per risolvere i propri problemi. L’obbiettivo di questi aspiranti rappresentanti della minoranza è encomiabile. Ma il dubbio è sulla reale rappresentatività di queste associazioni che a volte diventano autoreferenziali. Il rischio è che questa contrapposizione si concentri su approcci burocratici e non di business e che le imprese vengano paralizzate.

    Questi due gruppi di interesse combattono tra loro esattamente come fanno la maggioranza e la opposizione di un governo: cercando di aumentare la propria influenza nel principale organo di controllo delle imprese, il consiglio di amministrazione. Uno degli elementi chiave è il numero, i criteri di selezione e il peso nei comitati dei controllori”indipendenti“ che sono circa un terzo dei 2800 consiglieri delle società quotate italiane. Ma da chi sono “indipendenti” questi consiglieri? Essenzialmente dall’azionista di maggioranza e da chi lo rappresenta nel consiglio: i manager (un terzo dei 2800) e gli altri consiglieri (un altro terzo, quasi tutti professionisti e consulenti del socio di maggioranza e della azienda).

    All’estero questa contrapposizione “politica”non esiste. O c’è una lotta per cambiare il consiglio da parte di azionisti insoddisfatti oppure lo sforzo è nel nominare le persone “migliori”. Tutti i consiglieri non “esecutivi” (i non manager) devono avere i requisiti morali di “indipendenza” (dai manager). Devono poter essere in disaccordo con il management sulle scelte strategiche e controllare attivamente i rischi. E tutto questo nell’interesse unico dell’azienda.

    Che fare? Solo chi controlla le aziende italiane può decidere di aprire seriamente al capitale la propria impresa e non c’è legge né norma che possa obbligarlo a farlo. Sarebbe urgente perché le poche aziende italiane globali rimaste rischiano di essere spazzate via definitivamente da questo tsunami della crisi della economia mondiale. Ma è evidente che il processo è lungo. E nell’attesa che le aziende italiane diventino più contendibili (se mai avverrà) è negli interessi di tutti gli azionisti portare le persone migliori nei consigli, competenti e “indipendenti “ moralmente da tutti.

    Più manager e meno professionisti e consulenti che hanno difficoltà ad essere veramente indipendenti. Trovare qualche centinaio di talenti di questo genere non è facile. Non solo. E’ dimostrato che i consigli “misti” sono di migliore qualità. E’ per questo che tentare di inserire le migliori donne sarebbe evitare di fare harakiri. Per questo la proposta fatta da chi scrive due anni fa alla Borsa italiana di una “azione positiva” temporanea per avere più donne nei consigli italiani era la prima e forse unica misura contenuta nella proposta di questo codice che poteva avviare il processo di miglioramento della qualità dei consigli d’amministrazione italiani. E non perché si è “amici delle donne”, ma perché si è “amici del merito”, ricostituente fondamentale per le nostre aziende.

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