Congedi di paternità: siamo ancora ben lontani!

    Assentarsi dal lavoro per fare il papà a tempo pieno? Una realtà ancora minoritaria in Italia. A 10 anni dall’introduzione del congedo parentale anche per i padri, pochi sembrano usufruirne, e perlopiù sono operai e impiegati mentre i dirigenti uomini sono grandi assenti.

    E’ questo il risultato di una recente indagine presso un campione di aziende effettuata da Adecco, società leader nel settore Human Resources. A richiedere i congedi di paternità sono infatti soprattutto operai (20%) e impiegati (15%). Nettamente in contrasto la situazione nel Management: solo il 3 % dei quadri ha chiesto di andare in congedo paternità e nessun dirigente

    Secondo il sondaggio le motivazioni sono principalmente culturali (44%) – la donna è ancora considerata la responsabile  “principale” e naturale dell’allevamento della prole e la richiesta da parte di un uomo è vista dalle stesse aziende come “inusuale”. Ma incide anche il fattore economico (41% dei casi). Il congedo è infatti retribuito con il 30% della retribuzione e le donne, è noto, hanno retribuzioni spesso inferiori a quelle degli uomini anche a parità di mansioni. Situazione che determina una mera scelta di convenienza economica, dunque, anche nelle coppie più giovani, orientate ad una più equa ripartizione dei ruoli familiari. Una discriminazione che aggiunge un ulteriore svantaggio per le donne-madri che vogliono investire sulla propria carriera. Un motivo ulteriore per continuare la lotta per l’equiparazione effettiva degli stipendi. 

    Ritengo che i congedi parentali per i padri, tuttavia, debbano essere visti non solo come mezzo per favorire le pari opportunità femminili sul lavoro, ma come “difesa” e spinta verso una valorizzazione e protezione del ruolo stesso della paternità. Troppo spesso, infatti, una richiesta di congedo di paternità viene vista ancora in modo inusuale in azienda e rischia di essere più penalizzante per un uomo che non per una donna. Una sorta di discriminazione al contrario!

    Di qui una serie di idee e proposte, dibattute anche all’interno di Corrente Rosa.

    Alcune di noi ritengono che sarebbe opportuno proporre un periodo di paternità obbligatoria per uno o due mesi da prendersi nel corso dei primi due anni di vita del bambino. Le aziende metterebbero così in conto che tutti i lavoratori, indipendentemente dal sesso, prima o poi potrebbero astenersi dal lavoro per prendersi carico degli impegni familiari.

    Si parla anche di valutare la riduzione del periodo di astensione obbligatorio per la donna  ma è pur vero che questo è un diritto a tutela  anche del bambino stesso ad essere accudito adeguatamente nei primissimi mesi di vita.

    D’altra parte si riconosce che in un momento di crisi economica come quello attuale, maggiori oneri a carico delle aziende e/o degli enti pubblici (INPS) sono difficili da far passare.

    Confrontarsi con i soliti Paesi Nordici, con popolazioni meno numerosi e conti pubblici più in ordine sembra oggi un’utopia, ma è pur vero che paesi come la Francia, più simili all’Italia, rivelano che l’efficienza dei servizi pubblici (asili nido, strutture sanitarie, sgravi alle famiglie,…) e forme flessibili di lavoro (telelavoro,…) svolgono un ruolo importante per la realizzazione di scelte libere e consapevoli in famiglia.

    Non possiamo certamente essere insensibili alle esigenze economiche del nostro Paese in un momento difficile come questo, ma se è vero che proprio i momenti di crisi precludono a cambiamenti importanti nella società, questo potrebbe essere il momento per non lasciare indietro modifiche strutturali di sostegno alle famiglie, alle energie e ai talenti che le lavoratrici donne possono dare ed alla nuova esigenza che molti giovani d’oggi sentono: vivere ed esprimere in modo più autentico e concreto il ruolo di padre.

    La palla sta ancora una volta in mano alle scelte dei nostri politici!

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