Inche Marisela: …poi fecero sacrifici e l’acqua si calmò

    …poi fecero sacrifici e l’acqua si calmò. Quelli sopravissuti scesero dalla collina e popolarono la terra. Così nacquero i Mapuches

     

    Ci sono storie che parlano da sole mentre cerchiamo di raccontarle. Storie che bruciano dentro, e continuano a farlo anche quando decidiamo di non ascoltarle più. Bruciano negli occhi e nella lingua. Nelle mani. Ardono di coraggio e di indignazione. Di bellezza. Di quella rara qualità della completezza che ci è stata data in dono e che abbiamo perso strada facendo, svampiti come siamo, presi a cogliere l’attimo personale che gironzola davanti al nostro naso, senza capire che lo stesso arriva da lontano, da una storia comune, da una comune sofferenza, che brucia alle volte mentre qualcuno ce la racconta.

    Per fortuna ci sono anche delle persone che ogni tanto ci incrociano la strada, e riprendono da capo il filo del discorso. Con tutto il loro coraggio, la loro indignazione, l’ingenita bellezza di un popolo che continua a definirsi, con orgoglio: Figlio della terra.

    Marisela Pilquimán è una giovane donna Mapuche. Originaria dalla città di Valdivia, nel sud del Cile, conosciuta come La regione dei fiumi. E’ venuta in Italia invitata da una agguerrita collettività cilena che lotta per mantenere viva una memoria comune, da lasciare in dono ai loro figli; tra canti, empanadas e l’allegria contagiosa di un popolo in diaspora ad ammantare quel velo sottile di tristezza che si insinua caparbio, tra ricordo e ricordo, che rende tersa l’aria di una piovosa serata milanese.

    Con Marisela ci troviamo anche il giorno successivo. Parliamo di tante storie che in qualche modo ci sono comuni. Dei sogni dei suoi antenati. Del loro ansito secolare di distanze. Della misera realtà nella quale sono costretti a sopravvivere.

    “Ci sono alcuni miei fratelli imprigionati”, mi dice “da qualche settimana hanno sospeso uno sciopero della fame che por poco non costa loro la vita. Trentaquattro rappresentanti del mio popolo si trovano rinchiusi da anni in diverse carceri cilene. La loro colpa? Aver preso parte ad alcune rivendicazioni pubbliche per difendere il nostro diritto alla vita, all’acqua, alla terra. Terra che storicamente compone il Walmapu (territorio Mapuche), e che è oggi nelle mani di privati senza scrupoli e di imprese multinazionali che sfruttano e impoveriscono il faticoso divenire della mia gente.”

     

    E’ una lunga storia, vecchia quanto il mondo, quella che descrive l’esproprio, la rapina, la progressiva depauperazione alla quale sono state sottoposte le culture indigene americane. Il più grande genocidio mai attuato dall’uomo nei confronti dei suoi consimili. Circa centocinquanta milioni di individui sterminati dal 1492 ad oggi, con l’appoggio di istituzioni care alle potenze dominanti, di teorie economiche che imperversano nel mondo dalla rivoluzione industriale in poi, l’aberrante silenzio intorno a quanto continua a succedere sotto il nostro privilegiato balcone, e che ci ostiniamo a non vedere.

    Mentre l’emozione del mondo s’accalcava unanime all’ingresso della miniera San Josè, a Copiapò, dalla quale sarebbero stati estratti vivi i 33 minatori cileni intrappolati, nemmeno un mese fa, un‘altra tragedia continuava -continua – a svolgersi, dietro le quinte della commozione universale, a porte chiuse, giorno dopo giorno.

    E’ la storia dell’eroica resistenza del popolo Mapuche contro lo sterminio fisico e culturale al quale viene da secoli sottoposto.

    Loro, che resistettero coraggiosamente alla conquista spagnola, che non permisero mai a nessuno di sottomerli, cominciarono ad essere perseguitati dallo Stato Cileno fin quasi dalla sua conformazione, nel 1883. La cosiddetta “Pacificazione dell’Araucanìa”, con la sua aulica nomea, si mostrò presto per quello che era. Il saccheggio indiscriminato dei territori, della lingua, della cultura, della storia, dell’economia di una nazione da sempre esistita su quella terra, che con essa ha convissuto, senza prevaricazioni, nel rispetto di un patto che lega tutti quanti a un reciproco impegno di rispetto comune.

    Alla protesta dei Mapuche si opposero con ferocia le forze del “progresso”.

    Una legge antiterrorista voluta dal generale Pinochet nel 1978 per combattere i suoi detrattori, viene da allora applicata come un macigno su ogni rivendicazione indetta dagli indigeni nella lotta per la propria sopravvivenza. Anche da parte della repubblica democratica che vinse la battaglia contro quell’obbrobrio oscurantista.

    I territori indigeni sono stati militarizzati. I loro diritti politici cancellati. La scure della giustizia militare s’abbatté da allora su ogni singolo reato commesso dai Mapuches, senza distinzioni di sorta, come se avessero a che fare con un esercito invasore da cacciare via a tutti costi dal proprio suolo, dalla propria quotidianità, dalla propria memoria.

     

    Contro l’indio tutte le armi furono usate con generosità, disse Neruda. Lo sparo della carabina, l’incendio delle loro capanne, e poi, in maniera più paternalista, si adoperarono la legge e l’alcool. Anche il giurista si specializzò nel furto delle loro terre, il giudice li condannò quando protestarono, il prete li minacciò con il fuoco eterno.

     

    Marisela ha trentatrè anni. Si è laureata in Geografia a Valdivia, nel sud del Cile, e oggi segue un master in Territorio e Ambiente Sociale, all’Università di Madrid.

    Mi parla a lungo del Mapudungun, quella lingua armonica adoperata dalla sua gente per comunicare con i propri fratelli e con la madre terra, che lentamente comincia a scomparire. Dei Lafkenmapu, le regioni che s’affacciano sul mare. Del Mingaco, quel secolare principio di reciprocità che vige da sempre tra i singoli individui di una comunità, tra una comunità e l’altra, tra queste e quel ventre prodigioso dal quale un giorno si videro germogliare, a parità di diritti, insieme al resto della creazione.

     

    Tra qualche tempo, non appena finirà gli studi, tornerà indietro. Al Walmapu, alle sue origini. A quella storia che brucia nei suoi occhi, nelle sue parole, nella memoria di quanti hanno la fortuna di ascoltarla. La storia di un popolo, che in molti credono lontana. Per fortuna c’è lei a rievocarla. Lei che parla la lingua di tutti quanti, che ha studiato, che presto tornerà a raccontare ai suoi com’è il mondo di fuori. La Dottoressa Pilquimàn, laureata in Scienze della terra.

    Inche Marisela, sorride lei.

    Io sono Marisela Pilquimàn.

    Del popolo Mapuche.

    [scritta da Milton Fernàndez novembre 2010]

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