“He Hasn’t Had It All Either”: un interessante articolo uscito sul New York Times del 17 marzo 2013

    timesVi ricordate Anne-Marie Slaughter? Era quella docente universitaria di Princeton che dichiarò nel 2012, su The Atlantic, che le donne non possono avere tutto: carriera e figli. L’articolo fece scalpore. Già allora Corrente Rosa si oppose ad una visione cosi restrittiva della condivisione tra lavoro e famiglia considerando che sia uomini che donne che raggiungono i vertici devono fare sacrifici ma che solo le donne subiscono l’obbrobrio sociale. Per fortuna un giornalista del New York Times ha confermato le nostre tesi.

    Il conflitto tra carriera e cura della famiglia è un tema attuale, che solitamente coinvolge in misura maggiore la popolazione femminile. Ma sul numero del New York Times del 17 marzo 2013 è stata pubblicata una lettera dal titolo “He Hasn’t Had It All Either/Neanche lui ha potuto avere tutto” scritta da un noto personaggio del mondo dei media statunitense, in risposta al famoso articolo uscito su The Atlantic nell’estate del 2012, dove Anne-Marie Slaughter, donna che negli USA ha ricoperto diversi incarichi nel mondo istituzionale, accademico e della comunicazione, denunciava la situazione di disagio generata dalla difficoltà di far coesistere il lavoro con il ruolo di mamma.
    Questo l’aveva portata a rinunciare alla sua prestigiosa occupazione, spiegando come sia impossibile per una donna poter conciliare due aspetti della vita così conflittuali.

    E’ interessante leggere la risposta da parte di un uomo, che offre la possibilità di ascoltare dalla prospettiva opposta le difficoltà e le problematiche della vita familiare quotidiana.
    Diversi sono i temi che vengono affrontati nella lettera: prima di tutto gli stereotipi e le pressioni sociali, che da una parte spingono le donne a restare a casa, ma dall’altra esigono dall’uomo di lavorare e guadagnare bene. Poi il giudizio negativo sul lavoro da casa, sperimentato in prima persona dall’autore e che genera uno stato di senso di colpa, spingendo a lavorare molto più duramente, quasi a giustificare il fatto di non dover uscire. Senza contare, poi, che non ha mai permesso a nessuno di raggiungere il vertice, per il quale è necessaria una costante presenza ed attenzione sul posto di lavoro (“I’ve seen very few people — myself included — reach the top or even near the top while working full time at home/Ho visto davvero poche persone – me compreso – raggiungere i vertici o avvicinarsene lavorando da casa a tempo pieno”).

    Anche l’autore, quindi, racconta di aver dovuto rinunciare alla carriera per poter avere cura dei figli e stare loro accanto durante la crescita (You can’t cover a war and be there for your children. Do not believe it when people say they can travel and still keep up with their kids at home by talking on the phone or Skyping/Non si può coprire una guerra ed essere presente per i propri figli. Non credete alla gente quando dice che può viaggiare e allo stesso tempo stare in contatto con i propri figli a casa tramite telefono o Skype), convinto di non potersi esimere dalla scelta che si presenta davanti ad ognuno e che spinge molti a decidere di mettere al primo posto il ruolo di genitore, ma porta altri a dare priorità al lavoro come mostra il successo che hanno raggiunto nella propria vita.

    Questa riflessione sul tema della conciliazione e sul lavoro, che per sua natura diminuisce il tempo libero, (The core problem isn’t the workplace, it’s work/Il problema principale non è il posto di lavoro, è il lavoro), non coinvolge solo l’universo femminile, ma anche gli uomini, a conferma che le questioni di genere sono un tema che tocca la società nel suo complesso e per questo non deve essere affrontato da una sola fetta di essa.

    Leggi l’articolo del New York Times

     

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