Il divario di genere nel settore delle Scienze: quali prospettive?

    di Nicoletta Bevilacqua

    Nel campo delle discipline scientifico-tecnologiche (sinteticamente denominato STEM, acronimo di Science, Technology, Engineering and Mathematics) le differenze di genere sono particolarmente forti, come ricorda un articolo recentemente pubblicato dal New York Times, che si chiede come le donne possano diventare i “motori del successo” nel settore dell’intelligenza artificiale (A.I.), delle scienze naturali e della medicina attraverso la ricerca inclusiva di genere.

    L’articolo è particolarmente interessante non solo per l’argomento trattato, ma anche per la raccolta di opinioni di esperti molto qualificati e l’utilizzo di numerose fonti di dati in materia (Unesco, OECD, European Commission, Gender Innovation Stanford University, Association for Women in Science Magazine, the European Institute of Women’s Health).

    La prima questione affrontata concerne lo scarso peso attribuito negli ultimi anni alla discriminazione di genere nel settore scientifico, mentre in altri campi (cinema, politica, affari) questo problema ha fatto scalpore a livello mediatico.

    Una spiegazione in proposito emerge dalla testimonianza di Alexandra Palt, Chief corporate responsibility officer e vice presidentessa esecutiva della Fondation L’Oréal, la cui iniziativa For Women in Science, realizzata in collaborazione con l’Unesco, ha sostenuto i risultati conseguiti dalle donne in questo campo e ha operato per colmare il divario di genere dal 1998. Secondo la sua opinione, infatti, come riporta il NYT, “Le donne nella scienza, specialmente quelle di vecchia generazione, vogliono parlare della loro ricerca, non di se stesse. Quindi ciò rende più difficile parlare della questione di genere, perché le donne non sono molto esplicite”.

    Come sottolinea poi Rachel Adams, ricercatrice di genere e A.I. presso l’Institute of Advanced Studies, University of London “L’università in generale sta diventando un campo meno dominato dagli uomini, ma continua a operare basandosi su un sistema gerarchico che può spesso riprodurre o imitare i pregiudizi di genere in modi impliciti e inconsci”.

    Certo è, come fa presente l’articolo, che se da un lato la presenza delle donne nella scienza sia cresciuta negli ultimi decenni, i progressi sono avvenuti d’altro canto molto lentamente e le donne ancora incontrano ostacoli nell’accedere a programmi educativi appropriati, ad ottenere finanziamenti per nuove ricerche e opportunità di crescita professionale.

    Le cifre, dice il NYT, parlano da sole: se il 49% degli studenti delle scuole superiori sono ragazze, meno del 30% dei ricercatori senior sono donne, mentre nell’EU solo l’11 per cento dei ruoli accademici senior nella scienza è detenuto da donne. Fino ad oggi, soltanto il 3% dei premi Nobel per la scienza è stato assegnato a scienziate.

    Venendo a considerare i principali ostacoli incontrati dalle donne che lavorano nel campo della scienza si può constatare, afferma l’articolo, che sono gli stessi che si rinvengono in altri settori: la difficile progressione verso ruoli di leadership, la disparità di retribuzione e ambienti di lavoro poco inclusivi. Ma la questione di genere nel campo dello STEM, secondo il NYT, va anche oltre, poiché l’attuale divario potrebbe infatti privare il mondo di possibili progressi scientifici prodotti dalle competenze e dalle prospettive intellettuali delle donne, frenando sia la velocità che la qualità dell’innovazione.

    Come spiega Alexandra Palt, quando si parla di scienza è necessario affrontare non solo la questione morale e sociale dell’uguaglianza di genere. Si tratta anche di ottenere la migliore ricerca possibile e garantire risultati positivi per tutti – uomini e donne – in tutto il mondo.

    La dottoressa Londa Schiebinger, professoressa di storia della scienza e direttore di Gendered Innovations a Stanford esprime una analoga esigenza “È molto importante che ci sia diversità nella scienza, ma dobbiamo andare oltre”, “Dobbiamo insegnare agli scienziati i veri effetti dell’analisi di genere in modo che possano creare una ricerca che funzioni per tutti”.

    Questo, a suo parere, è particolarmente vero nei campi della medicina e della tecnologia.
    Fare ricerche mediche basate esclusivamente sugli uomini – a meno che non si tratti di una condizione specifica per genere – è fuorviante e potrebbe costare vite e denaro. Come fa rilevare Schiebinger, alla fine degli anni ’90, 10 farmaci furono ritirati dal mercato degli Stati Uniti a causa di effetti che mettevano in pericolo la vita. Otto tra essi presentavano maggiori rischi per la salute delle donne, il che solleva la controversa domanda che si pone la professoressa Schiebinger e cioè se tutti i farmaci funzionano allo stesso modo su uomini e donne oppure se gli uomini ottengano migliori cure mediche.

    “I farmaci metabolizzano in modo diverso negli uomini e nelle donne”, dice infatti Schiebinger. “Se non ti rendi conto di ciò, non è possibile identificare  in che modo possano essere dannosi per le donne perché il maschio è stato generalmente il nostro modello per lo sviluppo di farmaci”.

    L’articolo sottolinea, a tale riguardo, come un esempio noto sia quello della malattia cardiovascolare, che storicamente è stata considerata principalmente una condizione maschile, con prove cliniche chiave condotte esclusivamente sugli uomini. Di conseguenza, molte donne hanno avuto diagnosi sbagliate e quindi meno probabilità di sottoporsi a un intervento chirurgico di bypass ad altri trattamenti standard. Solo negli ultimi due decenni è cresciuta la consapevolezza di come questa malattia colpisca le donne in modo diverso dagli uomini. Oggi, essa rimane la principale causa di morte per le donne (in particolare per il 43% delle donne nella EU).

    Secondo Londa Schiebinger, riporta ancora il NYT, “Dobbiamo insegnare agli scienziati i veri effetti dell’analisi di genere in modo che possano creare una ricerca che funzioni per tutti”.

    L’articolo fa notare come un altro settore in cui la ricerca di genere squilibrata potrebbe avere un impatto diretto sui risultati degli studi in questo campo è l’intelligenza artificiale, storicamente dominata dagli uomini per le posizioni di alto livello e anche “in termini di dominio di ciò che può essere inteso come un modo di pensare maschile”, secondo quanto afferma la dott.ssa Rachel Adams, esperta nell’interazione tra genere ed intelligenza artificiale presso l’Institute of Advanced Studies dell’Università di Londra. Attualmente solo il 22% dei professionals che operano nel settore sono donne.

    Alexandra Palt sottolinea d’altro canto come gli esempi non si limitano a questo. Nel riconoscimento vocale e nell’apprendimento automatico, la R&S incentrata sugli uomini ha fatto sì che le applicazioni “discriminino sistematicamente o prendano decisioni distorte” e ciò dimostra, a suo parere, l’esigenza che la ricerca e le innovazioni siano programmate da uomini e donne.
    Gli stereotipi di genere, afferma dal canto suo la professoressa Schiebinger, possono essere trovati in banali interazioni quotidiane. “Ad esempio, Google Translate si posiziona automaticamente sul pronome maschile perché “è più comune sul Web “. È qui che entra in gioco l’analisi di genere”.

    L’articolo approfondisce poi gli interventi possibili per superare il divario di genere, segnalando come Palt ed i suoi colleghi siano unanimi nel sostenere che una maggiore visibilità del problema, un forte sostegno e la creazione di reti tra donne che operano nel settore scientifico potrebbero contribuire a colmare il divario di genere a livello globale.

    Il NYT riporta anche l’opinione in proposito del dott. Maki Kawai, direttore generale dell’Istituto di scienza molecolare a Tokyo e tra i promotori della iniziativa L’Oréal-UNESCO per la laurea in Scienze della scienza, secondo il

    quale “Il modo di pensare sta cambiando gradualmente – le persone capiscono che le pari opportunità sono molto importanti”, Tuttavia, ammette che il suo campo è ancora dominato prevalentemente da uomini: “Nel mio istituto, meno del 10% dei principali ricercatori sono donne. In fisica e ingegneria, gli studenti laureati in Giappone di genere femminile sono meno del 20% “.

    “Dobbiamo incoraggiare le ragazze a considerare la scienza come una carriera attraverso programmi educativi strutturati meglio”, afferma Schiebinger, riferendosi all’US Harvey Mudd College, che ha reinventato il curriculum grazie alla sua presidentessa Maria Klawe, con l’obiettivo di renderlo più attrattivo per le studentesse, e con il risultato che oggi più della metà delle sue major in informatica sono donne.

    Un tale approccio – sebbene sia ancora una rarità – può effettivamente aumentare il numero di donne che entrano nel mondo scientifico e accademico. Ma quali sono, si chiede il NYT, i modi percorribili per consentire ad un maggior numero di donne di avanzare verso ruoli di leadership e per indurre finalmente cambiamenti significativi nel settore?

    Le indicazioni date dalla professoressa Schiebinger sono state ampiamente esplorate dai leader del settore negli ultimi tre decenni che hanno definito le seguenti possibili aree di intervento: “Accrescere il numero delle donne” concentrandosi su più organizzazioni e enti governativi per aumentare il finanziamento della ricerca delle donne; “Creare reti di mentori e insegnare alle donne le capacità di leadership; “Correggere le istituzioni” promuovendo la parità di genere nelle carriere e attuando riforme che superino il pregiudizio di genere nelle assunzioni e nelle promozioni. Infine, “Ampliare la conoscenza” integrando analisi del sesso e del genere nella ricerca.
    Secondo Schiebinger, questa nuova area di intervento politico è la più importante per il futuro della scienza e dell’innovazione.
    L’articolo segnala in proposito come la Commissione europea abbia richiesto l’analisi di genere e sesso nella ricerca finanziata con fondi pubblici nel 2014 e la Deutsche Forschungsgemeinschaft in Germania annuncerà l’adozione di requisiti simili nell’anno corrente.

    Tuttavia, fa presente il NYT, è importante anche un altro approccio che faciliti la creazione di reti di donne che possano, anche sulla base delle esperienze vissute, incoraggiare altre donne a perseguire le loro aspirazioni scientifiche condividendo storie e competenze con le giovani generazioni. E questo cambiamento non dovrebbe escludere gli uomini, ma anzi coinvolgerli sempre di più.
    Nel 2018, osserva l’articolo, la Fondation L’Oréal lanciò per tale scopo la sua iniziativa Men for Women in Science, che includeva il famoso matematico Cédric Villani e il genetista Axel Kahn tra i primi 50 scienziati uomini provenienti da Francia, Spagna, Marocco e Giappone ad essersi impegnati.

    L’esperienza vissuta da Alexandra Palt, conclude il NYT, indica quanto questi interventi siano necessari: “Le donne che riescono sono spesso criticate”, afferma Palt. “Qualcosa che voglio insegnare a queste giovani donne è la differenza tra le persone che ti danno un feedback per farti crescere e quelle che ti danno invece un feedback per demoralizzarti, a causa dell’inconscio di genere. Condividere questo attraverso la consulenza ed il networking è estremamente importante. Se avessi saputo tutto questo quando avevo 28 anni, mi sarei risparmiata anni di dubbi su me stessa”.

    Si tratta, come si può vedere, di realizzare un cambiamento deciso per promuovere, integrare, e valorizzare al meglio le competenze scientifiche delle donne.
    Nel nostro Paese tale esigenza appare ancor più marcata, per le difficoltà maggiori che si registrano in tale ambito. Alcuni dati stanno a dimostrarlo.
    A cominciare dalle risorse messe a disposizione per l’innovazione: secondo i dati Istat, ad esempio, nel 2017 la quota di spesa italiana in R&S sul Pil era pari al 16,2%, inferiore a quella di tutti i paesi della EU ad eccezione della Romania e Slovacchia.
    I livelli di istruzione delle donne italiane sono notoriamente più alti di quelli degli uomini e le performances accademiche femminili sono migliori a parità di percorso di studi (Almalaurea 2016), ma la loro presenza all’università nel campo scientifico e tecnologico è decisamente sottorappresentata, in particolare in ingegneria, economia e statistica e scienza.
    La presenza di donne italiane nel mondo del lavoro è, come ampiamente noto, ancora bassa (49% rispetto a una media europea del 62%) e l’accesso al lavoro risulta ancora più difficile nei settori dello STEM, come denotano i dati Eurostat 2016 secondo i quali le donne scienziate e ingegnere sono in media pari al 40% in Europa a fronte del 32% nel caso dell’Italia.

    Molto c’è dunque da fare per incentivare i percorsi di studio e di professione delle donne in campo scientifico e tecnologico, e per non disperdere un capitale umano che, troppo spesso, deve ricercare all’estero le opportunità che in Italia sovente non sono disponibili, in misura più accentuata per le donne.

    Il perseguimento di incisive politiche di inclusione richiede quindi uno sforzo congiunto per utilizzare al meglio tutti gli strumenti necessari (tra cui quelli illustrati dall’articolo del NYT).

    La creazione di reti di donne attraverso le associazioni che le rappresentano costituisce in tal senso un fattore importante per condividere e portare a fattor comune gli obiettivi da perseguire e gli interventi da realizzare.
    La recente iniziativa #InclusioneDonna, cui Corrente Rosa ha aderito, ha proprio tale scopo e ha già definito una ampia piattaforma di richieste rivolte al Governo per attuare una concreta politica delle pari opportunità nel nostro Paese.

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