Un ritratto delle penaliste italiane: come il genere condiziona questa professione – di Nicoletta Bevilacqua

    E’ stato da poco pubblicato dalla Franco Angeli un interessante studio della avvocata milanese Ilaria Li Vigni, intitolato “Penaliste nel Terzo Millennio” che riporta, oltre ad una serie di interviste ad avvocate penaliste, tra cui alcune molto conosciute, i dati emersi da un recente sondaggio promosso dalla Commissione Pari Opportunità della Unione Camere Penali Italiane, di cui l’avvocata Li Vigni è componente.

    L’indagine, cui hanno partecipato 551 avvocate penaliste pari al 19,6% delle iscritte alla UCPI (2.815 complessivamente), aveva l’obiettivo di individuare la loro composizione sociale e professionale, le caratteristiche del lavoro svolto, i livelli di reddito, la rappresentanza di genere, i riconoscimenti professionali, l’esistenza di differenze di genere, i rapporti tra famiglia e carriera professionale.

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    Alcuni dati emersi consentono di individuare un loro identikit. La maggior parte di esse (54,1%) ha oltre 40 anni, il 66,6% è titolare dello studio in cui lavora, il 74% è iscritta nelle liste del patrocinio a spese dello Stato, il 63,5% è iscritta nella lista dei difensori d’ufficio.

    Le materie d’elezione trattate riguardano in prevalenza reati contro la persona, i minori e la famiglia, mentre una quota decisamente minoritaria si occupa di reati societari e tributari e ha come clienti società, enti e associazioni che permettono in genere una retribuzione più cospicua e maggiore “visibilità” professionale. E questo fattore, la diversa tipologia di clientela, è infatti segnalata dal 39,3% delle intervistate per spiegare il differenziale retributivo.

    Come sottolinea l’Avvocata Li Vigni in una intervista al Sole24Ore del 23 gennaio scorso, la differenza reddituale con i penalisti è di oltre il 50%. Il 40,3% delle penaliste dichiara fino a 20.000 euro, il 46,3% percepisce tra 20.000 e 50.000 euro, mentre solo l’11,6% ha un reddito che rientra nella fascia 50.000-100.000 euro.

    Minore reddito quindi, anche se la passione per il lavoro svolto è segnalata dal 41,8% delle intervistate ed è stato il fattore più importante per scegliere questo percorso professionale.

    Talvolta questa scelta ostacola o rende comunque difficile coniugare le esigenze professionali con la famiglia, e non sono casi isolati le penaliste che hanno rinunciato ad avere figli per dedicarsi interamente alla professione. La incidenza di tali difficoltà è elevata, dal momento che il 58,2% dà una indicazione in tal senso.

    Altro elemento critico è rappresentato dalla scarsa solidarietà tra colleghe (65% delle risposte) che, verosimilmente, è alla base della scarsa rappresentanza delle penaliste nelle posizione di vertice del proprio ordine professionale. Ben il 70% delle intervistate concorda con questa affermazione.

    Come segnala l’avvocata Li Vigni nella intervista citata, nonostante il numero delle penaliste sia notevolmente aumentato a partire dagli anni ’90, rendendo paritetico il numero degli accessi alla professione, resta molta strada da fare per incrementare la loro presenza e i ruoli di responsabilità nell’ambito di una specializzazione, il diritto penale, che è stato per molto tempo appannaggio degli uomini.

    La differenza di genere dunque persiste e crea problemi non solo sul versante reddituale, ma anche nello sviluppo della carriera, per la prevalenza di attività a favore di “soggetti deboli”, che spesso implica un rapporto di maternage, sia nei confronti degli imputati che delle parti offese, mentre altri ambiti della professione più remunerativi, come si è visto, sono preclusi alle avvocato donne.

    Di notevole impatto sono risultati i condizionamenti familiari su una professione molto impegnativa, nella quale è difficoltoso conciliare tempi di vita e di lavoro.  Si tratta di un tema molto importante, sul quale la Commissione pari opportunità dell’Unione Camere Penali Italiane ha di recente presentato una proposta di legge che introduca il legittimo impedimento della avvocata nel processo penale nei due mesi prima del parto, come garantito ad esempio alle magistrate.

    Da favorire sono inoltre percorsi formativi specifici, che diano modo alle penaliste di incrementare le loro competenze in tema di comunicazione, di promuovere il proprio lavoro anche avvalendosi di reti di relazione, di favorire la rappresentanza di genere sviluppando forme e meccanismi di solidarietà tra colleghe.

    Corrente Rosa si chiede anche se le donne dovrebbero maggiormente orientare le loro carriere dal punto di vista finanziario e non solo passionale. La difesa di “soggetti deboli” non dovrebbe impedire di difendere anche soggetti forti come aziende, che retribuendo meglio, consentirebbero alle donne di condividere più facilmente lavoro e famiglia.

    Leggi l’articolo del Sole24Ore (23 gennaio 2017): Penaliste nel terzo millennio. L’identikit di una professione

     

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